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“Per la tua visita guidata, per scoprire di più sul segreto di santità e sulle storie che questi luoghi, hanno vissuto ed oggi raccontano.”
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La Basilica di Don Bosco
Iniziata nel 1961 e conclusa nel 1984 (la chiesa superiore della Basilica è stata rinnovata nel 2000 per l’Anno Santo); nel perimetro è compreso il luogo preciso ove nacque Don Bosco.
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Cascina Biglione
Questa fu la casa natale di Don Bosco. Dove infatti oggi sorge il tempio, c’erano la casa rustica e la cascina dei Biglione, una nobile famiglia di Torino. Francesco Bosco, giovane contadino pieno di energie, divenne presto il massaro della cascina.
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Cascina Baglione (casa nativa di don Bosco)
Precisamente ai Becchi il nonno paterno di don Bosco, Filippo Antonio (1735-1802), originario di Chieri, si era trasferito nel 1793, come mezzadro della cascina Baglione. Oggi questo edificio non esiste più: fu abbattuto tra 1957 e 1958. Al suo posto sorge il grandioso Tempio. Soltanto nel 1972 le ricerche d’archivio condotte da Secondo Caselle ci hanno rivelato che proprio in quella cascina era nato Giovannino.La costruzione, inizialmente lineare (e a due piani) era stata prolungata verso nord da un edificio civile a tre piani destinato ai padroni, che vi abitavano durante le vacanze. L’insieme veniva a formare un complesso a forma di «L», del quale la parte più antica era destinata ad abitazione dei mezzadri. Poche e povere stanze: al pian terreno: cucina con dispensa, «sala» e scala per accedere alle due camere da letto del piano superiore. Qui abitavano Filippo Antonio e i suoi figli, tra cui Francesco Luigi (1784-1817). Essi coltivavano il fondo padronale esteso per più di 12 ettari.Francesco Luigi Bosco si sposa all’età di ventun anni (1805) con Margherita Cagliero e da essa ha due figli: Antonio Giuseppe (1808 1849) e Teresa Maria (16 febbraio-18 febbraio 1810). Rimasto vedovo nel 1811, si risposa il 6 giugno 1812 con Margherita Occhiena (1788-1856); nascono così Giuseppe Luigi (1813-1862) e Giovanni Melchiorre, il futuro don Bosco (1815-1888).In questa casa il papà di Giovannino, colpito da polmonite acuta per essere entrato madido di sudore in cantina, muore l’11 maggio 1817, a quasi 34 anni di età. È il primo ricordo indelebile di Giovannino:-lo non toccava ancora i due anni, quando Dio misericordioso ci colpi con grave sciagura. L’amato genitore, pieno di robustezza, sul fiore della età, animatissimo per dare educazione cristiana alla figliuolanza, un giorno, venuto dal lavoro a casa tutto molle di sudore incautamente andò nella sotterranea e fredda cantina. Per la traspirazione soppressa, in sulla sera si manifestò una violenta febbre foriera di non leggera costipazione. Tornò inutile ogni cura e fra pochi giorni si trovò all’estremo di vita. Munito di tutti i conforti della religione raccomandando a mia madre la confidenza in Dio, cessava di vivere nella buona età di anni 34, il 12 maggio 1817 (si tratta in realtà del giorno 11, come risulta dai documenti d’archivio) Non so che ne sia stato di me in quella luttuosa occorrenza; soltanto mi ricordo, ed è il primo fatto della vita di cui tengo memoria, che tutti uscivano dalla camera del defunto, ed io ci volevo assolutamente rimanere Vieni, Giovanni, vieni meco, ripeteva l’ addolorata genitrice. Se non viene papà, non ci voglio andare. rispose il Povero figlio, ripiglio mia madre, vieni meco, tu non hai più padre. Ciò detto, ruppe in forte pianto, mi prese per mano e mi trasse altrove, mentre io piangeva perché Ella piangeva Giacche in quella età non poteva certamente comprendere quanto grande infortunio fosse la perdita del padre- (MO 31-32).Al grave lutto si aggiungono le difficoltà di un momento particolarmente critico per l’economia piemontese poiché il 1816-1817 sono anni di carestia e di fame:-Questo fatto mise tutta la famiglia nella costernazione. Erano cinque persone da mantenere (ndr.: mamma Margherita, la suo cera e i tre figli); i raccolti dell’annata, unica nostra risorsa, andarono falliti per una terribile siccità; i commestibili giunsero a prezzi favolosi (…). Parecchi testimoni contemporanei mi assicurano, che i mendicanti chiedevano con premura un po’ di crusca da mettere nella bollitura dei ceci o dei fagiuoli per farsene nutrimento. Si trovarono persone morte ne’ prati colla bocca piena d’erba, con cui avevano tentato di acquetare la rabbiosa fame.Mia madre mi contò più volte, che diede alimento alla famiglia, finché ne ebbe; di poi porse una somma di danaro ad un vicino. di nome Bernardo Cavallo, affinché andasse in cerca di che nutrirsi. Quell’amico andò in vari mercati e non potè nulla provvedere, anche a prezzi esorbitanti (…). Mia madre senza sgomentarsi andò dai vicini per farsi imprestare qualche commestibile e non trovò chi fosse in grado di venirle in aiuto. Mio marito, pre se a parlare, morendo dissemi di avere confidenza in Dio. Venite adunque, inginocchiamoci e preghiamo. Dopo breve preghiera si alzò e disse: Nei casi estremi si devono usare mezzi estremi.Quindi coll’aiuto del nominato Cavallo andò alla stalla, uccise un vitello e facendone cuocere una parte con tutta fretta, poté con quella sfamare la sfinita famiglia. Pei giorni seguenti si poté poi provvedere con cereali, che, a carissimo prezzo, poterono far si venire di lontani paesi»
Prato e pilone del sogno
Il prato ad ovest è quello che Don Bosco vide, a nove anni, nel sogno profetico che fece sulla sua futura missione. Un pilone ricorda quella visione che gli prefigurò una vita completamente spesa per i giovani.
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Pilone del sogno
Eretto nel 1929, sorge sul versante ovest della collina, a una ventina di metri dalla «Casetta». Vi è rappresentato il celebre sogno dei nove anni in una raffigurazione del pittore Pietro Favaro, riprodotta da un originale conservato nella chiesa dell’Istituto Salesiano di Alassio.Cosi don Bosco descrive il sogno:A quell’età ho fatto un sogno, che mi rimase profondamente impresso nella mente per tutta la vita. Nel sonno mi parve di essere vicino a casa in un cortile assai spazioso, dove stava raccolta una moltitudine di fanciulli, che si trastullavano. Alcuni rideva no, altri giuocavano, non pochi bestemmiavano. All’udire quelle bestemmie mi sono subito lanciato in mezzo di loro adoperando pugni e parole per farli tacere. In quel momento apparve un uomo venerando in virile età nobilmente vestito. Un manto bianco gli copriva tutta la persona; ma la sua faccia era così luminosa, che io non poteva rimirarlo. Egli mi chiamò per nome e mi ordinò di pormi alla testa di quei fanciulli aggiungendo queste parole: Non colle percosse, ma colla mansuetudine e colla carità dovrai guadagnare questi tuoi amici. Mettiti adunque immediatamente a fare loro un’istruzione sulla bruttezza del peccato e sulla preziosità della virtù.Confuso e spaventato soggiunsi che io era un povero ed ignorante fanciullo incapace di parlare di religione a quei giovanetti. In quel momento quei ragazzi cessando dalle risse, dagli schiamazzi e dalle bestemmie, si raccolsero tutti intorno a colui, che parlava.Quasi senza sapere che mi dicessi; – Chi siete voi, soggiunsi, che mi comandate cosa impossibile? -Appunto perché tali cose ti sembrano impossibili, devi renderle possibili coll’ubbidienza e coll’acquisto della scienza. – Dove, con quali mezzi potrò acqui stare la scienza? – lo ti darò la maestra, sotto alla cui disciplina puoi diventare sapiente, e senza cui ogni sapienza diviene stoltezza. Ma chi siete voi, che parlate in questo modo? – lo sono il figlio di colei, che tua madre ti ammaestro di salutar tre volte al giorno.Mia madre mi dice di non associarmi con quelli che non conosco, senza suo permesso: perciò ditemi il vostro nome. – Il mio nome dimandalo a mia Madre. In quel momento vidi accanto di lui una donna di maestoso aspetto, vestita di un manto, che risplendeva da tutte parti, come se ogni punto di quello fosse una fulgidissima stella. Scorgendomi ognor più confuso nelle mie dimande e risposte, mi accennò di avvicinarmi a Lei, che presomi con bontà per mano, e – guarda, -mi disse. Guardando mi accorsi che quei fanciulli erano tutti fuggiti, ed in loro vece vidi una moltitudine di capretti, di cani, di gatti, orsi e di parecchi altri animali. – Ecco il tuo campo, ecco dove devi lavorare. Rendi ti umile, forte, robusto; e ciò che in questo momento vedi succedere di questi animali, tu dovrai farlo pei figli miei.Volsi allora lo sguardo, ed ecco invece di animali feroci apparvero altrettanti mansueti agnelli, che tutti saltellando correvano at torno belando come per fare festa a quell’uomo e a quella signora. A quel punto, sempre nel sonno, mi misi a piangere e pregai quello a voler parlare in modo da capire, perciocché io non sapeva quale cosa si volesse significare.Allora Ella mi pose la mano sul capo dicendomi: a suo tempo tutto comprenderai. Ciò detto, un rumore mi svegliò»
Monumento a mamma Margherita
Nel prato del “sogno dei nove anni” si posa l’occhio vigile di Mamma Margherita, opera in bronzo di Enrico Manfrini (1992), corredata da cinque formelle in bronzo che illustrano episodi della sua vita ai Becchi.
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Risalendo verso il piazzale antistante al Tempio si incontra il monumento che onora mamma Margherita, realizzato nel 1992 da Enrico Manfrini. La grande statua bronzea raffigura la madre di don Bosco in abiti contadini, intenta ai lavori di casa, con un secchio in mano davanti agli animali domestici. Alle sue spalle, alcune formelle fissate ad un rustico muricciolo raccontano momenti significativi della sua vita: la morte del marito, il sogno del piccolo Giovanni a nove anni, la carità di lei verso i bisognosi, il suo arrivo a Valdocco con il figlio sacerdote.Il monumento vuole essere un segno di riconoscenza della Famiglia Salesiana a colei che ha dato un contributo determinante alla formazione del Santo dei giovani. La prima formella la onora così: «Contadina di grande coraggio e viva fede nella Provvidenza, crebbe i figli secondo il Vangelo con ragione religione e amore. Intuendo la vocazione di Giovanni, dal racconto dei sogni misteriosi, formò il cuore di lui alla carità verso Dio e i giovani più poveri. Volontaria e cooperatrice all’Oratorio, fu per tutti “Mamma Margherita” e tale resta per tanti ragazzi di Europa, America, Asia ed Africa>>.
Monumento a Giovanni Giocoliere
Il monumento sottolinea gli inizi di Giovanni come giovanissimo animatore attraverso l’arte della giocolieria e del saltimbanco.
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Nell’angolo sud-est di raccordo tra l’antica casa Graglia e il museo contadino, si trovava il «pilone dei giochi», costruito nel 1929, anno della beatificazione, e affrescato dal Crida. Ora un monumento in bronzo, opera di Ennio Tesei, lo sostituisce: ricorda Giovannino Bosco che si esibiva in giochi di abilità di fronte ai ragazzi della borgata, dopo un momento di preghiera e di catechesi.«Nella bella stagione, specialmente nei giorni festivi, si radunavano quelli del vicinato e non pochi forestieri. Qui la cosa prendeva aspetto assai più serio. Io dava a tutti un trattenimento con alcuni giuocarelli che io stesso aveva da altri imparato. Spesso sui mercati e sulle fiere vi erano ciarlatani e saltimbanchi, che io andava a vedere. Osservando attentamente ogni più piccola loro prodezza, me ne andava di poi a casa e mi esercitava fino a tanto che avessi imparato a fare altrettanto (…). Ad undici anni io faceva i giuochi dei bussolotti, il salto mortale, la rondinella, camminava sulle mani, camminava, saltava e danzava sulla corda, Da quello che si faceva un giorno festivo comprenderete me un saltimbanco di professione.Da quello che si faceva un giorno festivo comprendeva quanto io faceva negli altri. Ai Becchi avvi un prato, dove allora esistevano diverse piante, cui tuttora sussiste un pero martinello, che in quel tempo mi en di molto aiuto. A questo albero attaccava una fune, che andava rannodarsi ad un altro a qualche distanza; di poi un tavolino co la bisaccia; indi un tappeto a terra per farvi sopra i salti. Quando ogni cosa era preparata ed ognuno stava ansioso di ammirare novità, allora li invitava tutti a recitare la terza parte del Rosario, dopo cui si cantava una lode sacra. Finito questo montava sopra una sedia, faceva la predica, o meglio ripeteva quanto mi ricordava della spiegazione del vangelo udita al mattino in chiesa; oppure raccontava fatti o esempi uditi o letti in qualche libro. Terminata la predica si faceva breve preghiera, e tosto si dava principio ai trattenimenti. In quel momento voi avreste veduto, come vi dissi, l’oratore divenire un ciarlatano di professione. Fare la rondinella, il salto mortale, camminare sulle mani col corpo in alto; poi cingermi la bisaccia, mangiare gli scudi per andarli a ripigliare sulla punta del naso dell’uno o dell’altro; poi moltiplicare le palle, le uova, cangiare l’acqua in vino, uccidere e fare in pezzi un pollo e poi farlo risuscitare e cantare meglio di prima. erano gli ordinari trattenimenti. Sulla corda poi camminava come per un sentiero; saltava, danzava, mi appendeva ora per un piede, ora per due; talora con ambe le mani, talora con una sola Dopo alcune ore di questa ricreazione, quando io era ben stanco, cessava ogni trastullo, facevasi breve preghiera ed ognuno se ne andava pe’ fatti suoi
La Casa di Giuseppe
Nella casa in cui visse Giuseppe, il fratello di Don Bosco, attualmente si trova la Cappella del Rosario. La struttura è anche sede del Museo della civiltà contadina piemontese.
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Il fratello Giuseppe Luigi si sposò all’età di vent’anni (1833) con Maria Calosso dalla quale ebbe dieci figli, per la maggior parte mort in tenera età. Durante i nove anni (1830-1839) di lavoro come mezzadro al Sussambrino riuscì a raggranellare i mezzi necessari per l’acquisto di alcuni terreni sulla collina dei Becchi e la costruzione di una casa, povera, ma dignitosa e sufficientemente ampia per la numerosa famiglia. Vi si trasferì nel 1839 e vi restò fino alla morte (1862). L’edificio, situato quasi di fronte alla «Casetta», a fianco del santuarietto di Maria Ausiliatrice, è a due piani.
Sulla facciata, accanto alla lapide che ricorda l’importanza del fabbricato, nel 2002 è stata riprodotta una Meridiana Astronomica Geo grafica Universale (opera degli specialisti Giorgio Mesturini e Mario Tebenghi) con una scritta tratta dalla famosa meridiana che nel seminario di Chieri scandì gli anni di studio del chierico Bosco: «Afflictis lentae- celeres gaudentibus horae», cioè: «Le ore passano lente per coloro che sono tristi, velocemente per chi è nella gioia»>.
Pian terreno
Al pian terreno, in collegamento con il Museo della vita contadina, due vani separati da una scala presentano rispettivamente la ricostruzione della cucina della famiglia Bosco (indicata come Sala T) e della camera da letto (Sala S).
Cappella della Madonna del Rosario
Ancora al pian terreno, nell’angolo a ponente dell’abitazione, Giuseppe aveva adattato un piccolo ambiente ad uso cappella, e don Bosco lo dedicò alla Madonna del Rosario. La chiesetta venne da lui inaugurata l’8 ottobre 1848. Il Santo, fino al 1869, vi celebrava ogni anno la festa della Madonna del Rosario, solennizzandola con la presenza del la banda musicale e del coro dei ragazzi di Valdocco. Il locale è il primo centro di culto mariano voluto da don Bosco e testimone privilegiato degli inizi della Congregazione Salesiana. Qui infatti, il 3 ottobre 1852, Michele Rua e Giuseppe Rocchietti ricevettero l’abito chierica le. In questa cappella pregò certamente anche Domenico Savio il 2 ottobre 1854, in occasione del suo primo incontro con don Bosco e nei due anni successivi durante le vacanze autunnali ai Becchi. Così don Bosco ci descrive il suo primo incontro con Domenico
Savio:
Il primo lunedi d’ottobre di buon mattino, vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicinava per parlarmi. – Il volto suo ilare, l’aria ridente, ma rispettosa, trassero verso di lui i mici sguardi.- Chi sei, gli dissi, onde vieni?-lo sono, rispose, Savio Domenico, di cui le ha parlato D. Cugliero, mio maestro, e veniamo da Mondonio. Allora lo chiamai da parte e messici a ragionare dello studio fatto, del tenor di vita fino allora praticato, siamo tosto entrati in piena confidenza egli con me, io con lui.Conobbi in lui un animo tutto secondo lo spirito del Signore, e rimasi non poco stupito considerando i lavori che la Grazia divina aveva già operato in quel tenero cuore. Dopo un ragionamento alquanto prolungato, prima che io chiamassi il padre, mi disse queste precise parole: Ebbene che glie ne pare? mi condurrà a Torino per studiare?-Eh! mi pare che ci sia buona stoffa.-A che può servire questa stoffa? – A fare un bell’abito da regalare al Signore.- Dunque io sono la stoffa: ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell’abito bel Signore.-lo temo che la tua gracilità non regga per lo studio.- Non tema questo: quel Signore che mi ha dato finora sanità e grazia, mi aiuterà anche per l’avvenire.-Ma quando tu abbia terminato lo studio del latino, che cosa vorrai fare?-Se il Signore mi concederà tanta grazia, desidero ardentemente di abbracciare lo stato ecclesiastico.- Bene: ora voglio provare se hai bastante capacità per lo studio: prendi questo libretto (era un fascicolo delle Letture Cattoliche), di quest’oggi studia questa pagina, domani per recitarmela.Ciò detto lo lasciai in libertà perché andasse a trastullarsi con altri giovani, indi mi posi a parlare col padre. Passarono non più di otto minuti, quando ridendo si avanza Domenico e mi dice: se vuole recito adesso la mia pagina. Presi il libro e con mia sorpresa conobbi che non solo aveva letteralmente studiato la pagina assegnata, ma che comprendeva benissimo il senso delle cose in essa contenute.- Bravo, gli dissi, tu hai anticipato lo studio della tua lezione ed io anticipo la risposta. Si; ti condurrò a Torino e fin d’ora sei annoverato tra i miei cari figliuoli (DS 34-36).Restaurata una prima volta da don Rua, la cappella ha visto un nuovo intervento conservativo nel 2002, grazie a benefattori ed appartenenti alla Famiglia Salesiana che sono ricordati da una piccola targa affissa nel vano retrostante l’altare.Nello stesso ambiente, in una vetrina, sono esposti alcuni paramenti e arredi sacri della primitiva cappella.
Piano superiore
Al piano superiore, Giuseppe riservò sempre una camera per don Bosco, il quale la utilizzava ogni volta che si recava ai Becchi, in particolare durante le vacanze autunnali. Il locale si trova nell’angolo a sud ovest (Sala Z), e conserva gli arredi usati dal Santo. Per accedervi si passa davanti ad altre due stanze: l’una (Sala V), più piccola, ricostruisce lo studiolo del Santo, mentre l’altra (Sala U), più ampia, raccoglie il mobilio della famiglia Bosco.Sul lato est della casa si trovavano la stalla (Sala R) e il fienile (oggi ricostruiti), dove, durante le passeggiate autunnali, dormivano i ragazzi giunti da Torino. Essi trovavano ospitalità anche nel granaio (stanza in cima alla scala) e sul solaio di casa, ampio e ben aerato dai due abbaini fatti costruire con il contributo di don Bosco (ed elimina ti durante il restauro dell’edificio attuato nel 1929).Anche Michele Magone fu ospite ai Becchi (1858). Don Bosco, ciracconta un grazioso episodio avvenuto in quest’angolo dell’aia:Una sera mentre i nostri giovani erano già tutti a riposo, odo uno a piangere e sospirare. Mi metto pian piano alla finestra, e veggo Magone in un angolo dell’aia che mirava la luna e lacrimando sospirava. Che hai, Magone, ti senti male? gli dissi.Egli che pensava di essere solo, né essere da alcuno veduto, ne fu turbato, e non sapeva che rispondere; ma replicando io la domanda, rispose con queste precise parole:- lo piango nel rimirare la luna che da tanti secoli comparisce con regolarità a rischiarare le tenebre della notte, senza mai disobbedire agli ordini del Creatore, mentre io che sono tanto giovane, io che sono ragionevole, che avrei dovuto essere fedelissimo alle leggi del mio Dio, io l’ho disobbedito tante volte, e l’ho in mille modi offeso. Ciò detto si mise di nuovo a piangere. Io lo consolai con qualche parola, onde egli dando calma alla com mozione andò di nuovo a continuare il suo sonno».
Il Museo della civiltà contadina dell’Ottocento
Realizzato accanto alla casa del fratello Giuseppe, il Museo della Civiltà Contadina illustra la vita della famiglia contadina dell’Ottocento sulla collina monferrina e piemontese in genere.
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Museo della vita contadina dell’OttocentoTra casa Graglia e la casa di Giuseppe, sotto il livello dell’ala, è sta to costruito un salone con ampi archi aperti verso la valle, il quale ri calca nelle forme le cantinate agricole.Qui ha sede il Museo della vita contadina che illustra la vita della famiglia contadina dell’Ottocento sulla collina piemontese. Sono esposti circa seicento pezzi di antiquariato: si tratta di mobili, strumenti di lavoro, oggetti d’uso quotidiano, raccolti con pazienza e cura dal sale
siano laico Teresio Chiesa. Testimoniano usanze, vita e tecniche lavorative (della vite e del vino, del grano e del pane, del latte e dei formaggi, del legno…) in uso nelle famiglie dell’Astigiano, del Cuneese e del Torinese nell’Ottocento. Il collegamento con la casa di Giuseppe accentua l’efficacia evocativa della ricostruzione.La visita al museo risulta di estremo interesse storico e culturale. Aiutati da pannelli illustrativi e da fotografie, possiamo renderci conto dell’ambiente reale, dello stile di vita e di lavoro che le famiglie, come quella dei Bosco, conducevano nel vecchio Piemonte.I materiali esposti sono raggruppati in varie aree tematiche: costumi dei contadini (Zona A), oggetti che si trovavano nelle camere da letto (Zona B), presso il camino (Zona C), in cucina (Zona D); attrezzi per il trattamento del terreno (Zona E), per la coltura del grano (Zona F), per la fienagione e l’aggiogamento degli animali (Zona G); pesi e strumenti per la lavorazione della canapa e del legno (Zo na H); finimenti per giumenti (Zona I); strumenti di illuminazione (Zona L), di lavanderia e bucato (Zona M), di coltivazione della vite e di vinificazione (Zona N), di imbottigliamento del vino, insieme a canestri e ceste (Zona 0); arnesi legati all’allevamento del pollame e delle api (Zona Q). La cantina della casa di Giuseppe Bosco è stata allestita con attrezzi e oggetti tipici di ogni cantina ottocentesca della zona (Zona P).Durante i lavori di sterro per la costruzione del museo è ritornato al la luce l’antico forno, a forma di cupola, che serviva per la cottura del pane. Era stato costruito da Giuseppe; infatti quello della borgata, situato sul terreno dei Biglione, non era più sufficiente quando don Bosco veniva al Colle con i suoi ragazzi. Si trovava più in basso rispetto alla casa, sul fianco orientale della collina ed era stato ricoperto durante lavori di sistemazione effettuati negli anni Venti. È stato ricostruito presso l’ingresso del museo.
La Croce sul Colle delle beatitudini giovanili
La definizione di “Colle delle beatitudini giovanili” proviene da un discorso tenuto dal papa Giovanni Paolo II durante la sua visita al Colle Don Bosco del 3 settembre 1988.
La croce ricorda invece l’ultimo sogno missionario avvenuto tra il 9 e il 10 aprile 1886 mentre Don Bosco si trovava a Barcellona.
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La definizione di “Colle delle beatitudini giovanili” è tratta da un discorso tenuto dal papa Giovanni Paolo II il 3 settembre 1988 durante la sua visita al Colle Don Bosco.
In quel passaggio, però, Giovanni Paolo II si riferiva in generale a tutte le colline che hanno caratterizzato l’infanzia di San Giovanni Bosco.
La croce posta di fronte alla Basilica di Don Bosco, invece, ricorda l’ultimo sogno missionario avvenuto tra il 9 e il 10 aprile 1886 quando Don Bosco si trovava a Barcellona.
Via biblica giovanile
Partendo dalla casetta di Giovanni Bosco e proseguendo lungo la strada che porta alla casa di Domenico Savio ci si imbatte in un percorso arricchito da 14 piloni che raccontano le vite di altrettanti giovani presenti nella Bibbia.
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Via Lucis
La Basilica di Don Bosco è il primo luogo al mondo che mostra ai pellegrini una Via Lucis di sculture, un itinerario originale di devozione pasquale in cui si ricordano e si celebrano gli eventi della vita di Cristo dalla Risurrezione di Gesù alla Pentecoste.
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Sulla parete destra presso l’ingresso sono collocati altorilievi intagliati in tiglio, che costituiscono le stazioni della Via Lucis (dal quadro VIII al XIV) sgorgata dal mistero della Risurrezione. Come i tradizionali quadri della Via Crucis conducono a meditare la Passione e Morte di Cristo, cosi questi pannelli aiutano il credente a penetrare la Pasqua e i suoi frutti. Vi sono raffigurati gli eventi fondanti la fede cristiana, dalla Risurrezione, alle apparizioni pasquali, alla Pentecoste. L’opera ben si accompagna al Cristo Risorto che domina la navata; e stata eseguita ad Ortisei (Bolzano) su disegni del prof. Giovanni Dragoni di Roma.